Con il suo primo romanzo, Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire, Melissa P. ha contribuito a inaugurare nel nostro paese il fenomeno del mega-seller. Un successo che è arrivato molto più in là dei confini dell’Italia, conquistando vendite a sei zeri e le copertine dei giornali di mezzo mondo. Come racconta uno dei suoi editor di allora, Vincenzo Ostuni: «Nel 2004 siamo andati con Melissa alla Fiera di Francoforte in macchina e quando ci fermavamo negli autogrill tedeschi tutti la riconoscevano». È un genere di notorietà che pochi hanno conosciuto, e dal quale non è facile uscire indenni: «Lì per lì non ci ho fatto caso», afferma la scrittrice, «ero troppo piccola, ma credo che se fosse successo adesso mi avrebbe traumatizzato».

Melissa oggi ha venticinque anni. È nata a Catania, ma vive a Roma, in una bella casa affacciata su Piazza Vittorio, di quelle costruite nel primo Novecento, con i soffitti alti e le stanze grandi. Sul tavolo in cucina tiene il volume delle opere complete di Silvia Plath, e altri con le poesie di Anne Sexton e Amelia Rosselli. Ha appena pubblicato il suo quinto lavoro, un saggio narrativo dal titolo In Italia si chiama amore, uscito in questi giorni per Bompiani.

Da dove viene questo titolo? «L’ho preso da un documentario sulla sessualità degli italiani, girato negli anni Cinquanta dal regista Virgilio Sabel. Il libro è una versione ampliata delle mie inchieste sul sesso nelle città italiane».
C’è un capitolo dedicato a Roma, in cui scrive: «Pensavo che una città tanto desiderata fosse capace di regalare altrettanto desiderio, un fluire perpetuo di sensualità, strade disseminate di complimenti e rose, ragazzi in motorino pronti a offrirti un passaggio, ragazze antiche ondeggianti sui fianchi eterni».

Sembra che lei sia arrivata nella capitale con un immaginario mutuato dalla Dolce Vita anni Cinquanta. «Penso che tutti ci arrivino così, credendo che Roma sia una città piena di possibilità. Io poi mi aspetto sempre che la Dolce Vita sia da qualche parte, ogni volta che mi sposto spero di trovarla. Ma mi sono accorta che Roma è una città anche molto disgregata, in cui gli abitanti si mescolano poco, e ognuno frequenta solo persone del suo stesso ambiente. Quest’ultima considerazione però non vale per descrivere Piazza Vittorio: non è solo dei romani, quindi in questo luogo io gli altri abitanti ci sentiamo legati da una sorta di estraneità».

Qui ti senti in qualche modo a casa?
«Quanto mi senta a casa qui l’ho capito stamattina, quando mi hanno citofonato per scendere a partecipare alla foto di gruppo con gli abitanti del quartiere».

Tornando al libro, mi sembra che ci sia dentro soprattutto un suo modo di stare al mondo, fatto di pochi giudizi e di molta compassione.
«Compassione è la parola giusta: la compassione è umana, la pietà cristiana. La pietà sottintende un sentimento di superiorità verso chi ci impietosisce. La compassione ammette invece l’altrui fallibilità quanto la propria, quindi si gioca ad armi pari».

Quando si parla di lei si scatenano reazioni anche molto violente, una cosa che non succede con altri scrittori, mentre lei non parla mai male di nessuno. «Le persone di cui voglio parlare male le metto nei romanzi, è il mio modo per liberarmene e per esorcizzarle. Nella vita cerco di non avere a che fare con le cattiverie, è una difesa che ho adottato fin da quando ero piccola».

L’essere identificata come scrittrice di cose di sesso ha influito sulla sua vita amorosa?
«È una tragedia. Gli uomini pensano che mi interessi soprattutto il sesso in una relazione, mentre è chiaro che anche io, come tutti, ho necessità di intessere dei rapporti sentimentali. Per quanto riguarda la mia scrittura, spero che si capisca che il sesso è spesso un pretesto per parlare anche di altro».

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