Mentre i miei compagni di classe facevano l’esame di maturità io ero in giro a fare promozione del mio primo romanzo, “Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire”. Avevo lasciato la scuola pochi mesi prima perché, fra professori che mi toglievano il saluto e chi evitava di pronunciare il mio nome all’appello e quel simpaticone che si divertiva a fare scritte oscene col mio nome davanti al cancello di scuola, non è stato facile. Non è stato facile nemmeno a casa far digerire quel libro e soprattutto il fatto che, nemmeno maggiorenne, avessi già spiccato il volo. Ma a casa niente è mai stato facile e se scrivevo e a sedici anni mandavo lettere di presentazione agli editori con manoscritto allegato era perché, appunto, a casa non volevo più starci. E quella era la mia occasione, anche se significava rinunciare all’esame di maturità, al diploma, a tutte quelle cose che avevo dato per scontate prima di avere la brillante idea di pubblicare un romanzo che in poco tempo si era trasformato nel caso editoriale più clamoroso degli ultimi venti anni.
Quindi mi trasferii a Roma, avevo diciotto anni. Chiesi a un noto liceo del centro di accogliermi come studentessa e la risposta fu “I nostri programmi sono troppo difficili per una come te. Meglio che cerchi un’altra scuola”. La cercai, ne trovai una vicino Colle Oppio. Ci andavo tutti i giorni, alcune insegnanti non perdevano occasione per insultarmi dandomi della poco di buono e i compagni erano tutti molto incuriositi, mi seguivano in bagno per farmi domande, mi chiedevano autografi e io mi sentivo sempre più un’aliena. Poi arrivò altra promozione: Giappone, Argentina, Cile e persi molte settimane. Lasciai la scuola. M’impegnai con un insegnante privato per gli esami da privatista, ma c’era un’altra prova da superare: prima avrei dovuto ripetere le materie in cui ero stata rimandata in secondo liceo. Nel frattempo, ancora promozione: Olanda, Spagna, Portogallo, Francia, tutta l’Europa tranne credo l’Albania e il Montenegro. Decisi che avrei tentato l’anno dopo. Ogni anno ho deciso che avrei tentato l’anno dopo e alla fine eccomi qui, a trent’anni, con molta promozione alle spalle e una licenza di terza media.
Una lunghissima, lunghissima notte prima degli esami.
I miei genitori non si opposero all’abbandono prematuro dei miei studi e, una volta a Roma, credo non sapessero nemmeno che avevo tentato l’iscrizione e la frequentazione nei due licei. Mio padre tuttavia aveva una preoccupazione: mi raccomandava sempre di studiare le lingue e io, grazie a tutta quella promozione, fu esattamente quello che feci: inglese, spagnolo, francese, per almeno un paio d’anni non feci che prendere aerei e fare interviste nelle hall degli alberghi di tutto il mondo e alla fine qualcosa la imparai. Ma lui diceva che il futuro era la Cina e che avrei dovuto studiare cinese, ma quando il mio editore cinese diede il via alla stampa del mio romanzo il governo decise di bloccare la produzione perché il libro era troppo sconcio e allora in Cina non sono mai andata e il cinese non l’ho mai imparato, deludendo molto mio padre.
Alle elementari frequentavo una ricca scuola di gesuiti “Perché è la migliore di tutte”, e lo era. Mia madre diceva che con delle buone basi sarei poi riuscita a cavarmela ovunque e comunque e quindi, da allora, con quelle ottime basi, la mia educazione è stata solo affar mio. Certe mattine era lei a propormi di rimanere a casa, che le sembravo stanca. Ma io andavo lo stesso perché sapevo che se avessi perso il mio senso di responsabilità, con esso sarebbe andata via anche la possibilità di ottenere quel biglietto di sola andata verso la vita che avevo scelto per me. E l’avevo sognata così forte, quella vita, che presto era accaduta senza darmi nemmeno il tempo di organizzarmi.
Se i miei genitori mi avessero spinto a continuare a studiare non li avrei ascoltati, come probabilmente non mi ascolterà quel figlio che un giorno avrò e con cui mi vedrò costretta a usare frasi oscene tipo “È per il tuo bene”. Lo dirò, sono certa, e quel giorno riderò di me stessa. Ma mi piace pensare che sarò capace di allevare un figlio che avrà una propria coscienza che gli suggerisca cosa è bene per lui. Se nella costituzione che avrà deciso di scrivere per sé ci sarà la voce “Studia e prendi il diploma”, io sarò molto felice e anche molto curiosa di sapere come va questa faccenda del diploma che non ha mai preso. Ma sarei felice lo stesso se quella voce fosse sostituita da “Sii responsabile e curioso sempre”, anzi forse lo sarei di più, perché il segreto è solo quello.
Davvero, io ce l’ho messa tutta. Era mio dovere finire quello che avevo iniziato anche se ero salita su una giostra mostruosa che non voleva saperne di fermarsi: il diploma era quello che dovevo ottenere. Ma non ce l’ho fatta perché un paio d’anni e diversi libri e promozioni dopo mi ero già dimenticata dell’ottativo, del genitivo, non sarei più stata capace di parafrasare l’Inferno di Dante. Continuo però a pensare mi sarei divertita molto a sostenere la prova scritta. E questo è il mio unico rammarico.