Qualche tempo fa, la poetessa e scrittrice Maria Grazia Calandrone, ha scritto sulle sue pagine social: “«L’amore della madre è essere pronta all’abbandono dei figli», dirà Alda Merini a Vincenzo Mollica verso la fine della vita. Un abbandono che si ripete a ogni nuova svolta della crescita. Ogni madre deve saper incoraggiare tutti gli abbandoni che i figli le infliggono. Di più: ne deve essere orgogliosa, perché l’allontanamento dei figli prova il buon lavoro compiuto dalle madri e dai padri. Ogni buon genitore deve amare l’abbandono che subisce. Questo è l’amore massimo, l’amore per l’esclusivo bene di un altro”.
Calandrone ha scritto uno dei più bei romanzi degli ultimi anni, si intitola Splendi come vita, l’ha pubblicato Ponte alle Grazie, ed è la storia tragica e unica di una figlia abbandonata dalla madre biologica che si butta da un ponte, poi adottata da un’altra madre che dapprima l’avvolge e che a poco a poco si allontana, cacciando via quella bambina dal luogo d’incanto fatto d’amore e protezione e facendola precipitare nel luogo del Disamore, dove tutto è freddo e inospitale. È, senza alcun segreto, la storia autobiografica dell’autrice, ed è la storia di tutte coloro che riescono a sopravvivere alle proprie madri, a quelle morte, a quelle vive, a quelle buone, a quelle crudeli. Ma non basta sopravvivere, bisogna anche saper perdonare, perché è nell’atto supremo di assolvere le colpe che risiede non l’altrui, ma la propria liberazione. Solo allora dunque ci rendiamo di nuovo pronti a ospitare l’amore, e la vita.
Le parole di Calandrone, arrivano nei giorni in cui un bambino si perde fra le colline del Mugello, mentre la serie Omicidio a Easttown racconta di genitori e di figli perduti, poi ritrovati, a cui dire addio per sempre o per qualche anno, e negli stessi giorni in cui io metto via per l’ennesima volta gli indumenti che a mio figlio non vanno più. Essere genitori è un lungo addio. Tutta la vita lo è sempre, e per chiunque, ma solo l’essere diventata madre mi ha dato la misura del tempo.
Disney ha prodotto un delizioso cortometraggio di Domee Shi, una regista canadese di origine cinese. Il cartone si chiama Bao, la protagonista è una donna che sta preparando dei ravioli cinesi quando, all’improvviso, uno di questi prende vita e comincia a piangere come un neonato. Fra la donna e il raviolino comincia un idillio di amore, si dividono il cibo, prendono l’autobus assieme, si divertono, e man mano che il piccolo raviolo cresce, dimostra di aver bisogno di una crescente indipendenza, che la madre tutte le volte con amore gli nega, per paura ora che si faccia male, ora di quello che non conosce. Quando il raviolo è un uomo e annuncia la volontà di andare a vivere con la propria fidanzata la madre, ormai disperata, pur di non farlo uscire dalla porta se lo mangia. Subito dopo si lascia andare a un pianto straziante e vediamo un giovane uomo che arriva a consolarla: il figlio, per fortuna vivo e vegeto, in carne e ossa, il raviolo era stato solo una metafora. La madre fa pace con l’idea che suo figlio non le appartiene ed è a quel punto disposta a farlo andare per la sua strada. Chi non sa lasciare andare i propri figli corre il rischio di educare futuri uomini che pensano che l’amore sia possesso e che difficilmente riusciranno a sopravvivere a un rifiuto o a una separazione. La libertà è la più alta forma d’amore, e non solo per un fatto di generosità, ma perché più una persona è libera, più sarà felice di tornare da te, alla fine di ogni viaggio, e dirti quanto gli sei mancata.