Lei è tornata la notte di Natale.
Lei che fa tremare la terra, che incute timore. Che esige rispetto, che sbuffa, minaccia, i suoi improperi sono fiumi di lava.
L’estate scorsa sono tornata dopo molti anni nella mia città natale, Catania. L’ho fatto insieme al mio fidanzato, che non vedeva l’ora di vedere l’Etna per la prima volta.
“Se lei vorrà” ho detto appena usciti dall’autostrada e una spessa coltre di nubi la nascondeva.
“Ma perché lei? Non è un vulcano? Non è maschile?”
“È un vulcano, ma è femmina. In perenne sindrome premestruale, ogni tanto si apre e quello che vedi è il suo sangue. Per noi è una grande madre.”
‘A Signura. È così che mi rivolgevo all’Etna quando da piccola la ammiravo dal balcone di casa. Una maestosa signora ammantata di bianco in inverno, che si spogliava e diventava verde in estate e che ogni tanto dava spettacolo annunciando il proprio ritorno con boati, pennacchi fumosi e una pioggia di cenere che era l’incubo di mia madre, di mia nonna e delle mie zie che per giorni le vedevi con le scope in mano, come delle streghe pronte a spiccare il volo, a raccogliere la sottilissima polvere nera. Che la terra tremasse, che la lava ci sommergesse tutti ma, per carità, Dio ci liberasse dalla terra nera! Te la ritrovavi dappertutto: fra i capelli, dentro le calze o le mutande, scricchiolava sotto le scarpe e ogni passo diventava un monito, ricordandoti quanto la tua vita fosse incerta, che quella terra caduta dal cielo poteva essere solo un gioco oppure un avvertimento e che se era un avvertimento allora c’era poco da stare allegri, la morte poteva arrivare in ogni momento. Per molti anni ho abitato a Nicolosi, il paese alle pendici dell’Etna. D’inverno nevicava spesso, vedevo i turisti arrivare con le tute e gli sci, mi sembrava che violassero la sacralità del vulcano. “Chissà come si arrabbierà Idda”, pensavo guardando la cima innevata. Non ho mai avuto un rapporto più esclusivo e potente di quello avuto con l’Etna. Io l’amavo e la temevo. E ad amarla moltissimo non solo la gran parte dei catanesi, ma anche quell’amica giapponese di mia madre che agli inizi degli anni 90 lasciò il futuro trasferendosi nel passato: Tokyo – Nicolosi solo andata. Abitava in una piccola casa di pietra dipinta di rosso e viveva creando posacenere e vasi con la pietra lavica. Nessuno sapeva come si chiamasse prima di arrivare fra la nostra gente, dal suo arrivo si fece chiamare sempre Etna. Poteva avere sessant’anni o quindici, nessuno lo ha mai saputo. Etna aveva lasciato la sua isola, altrettanto vulcanica e pericolosa, per la nostra. Anche lei venerava la nostra vulcanessa, anche lei non aveva dubbi che si trattasse di una femmina. Da quel che so sta ancora lì, a guardarla e a pregarla tutte le notti, a prendere i suoi figli e trasformarli in oggetti da rivendere al mercatino.
La Signora. Che tutto vede e tutto conosce. Seduta sulla città nera da lei più volte sommersa e pietrificata, la veglia e la protegge. Ma non da se stessa. Come quelle madri che non vogliono che ai loro figli sia fatto del male, ma che inconsapevolmente sono loro a provocare dolore, a dare tormento e spavento a coloro che assicurano di amare. Non c’è nulla di più consolante per un catanese che guardare verso il vulcano, anche mentre i lapilli sgorgano dalle bocche. È quella casa. E familiare è anche la sensazione di poter perdere tutto in poco tempo, la propria abitazione, i propri cari, la propria vita. Perché nulla, qui, ti appartiene davvero. È tutto suo. Della Signura.
Da bambina credevo che le nuvole esistessero solo a Catania, soffiate fuori dalla bocca dell’Etna. Il vulcano, dunque, come inizio e come fine di tutte le cose. Che dà la vita e che la toglie. Non a caso, secondo gli antichi, il Tartaro si trovava proprio sotto il vulcano, dentro la cui bocca scendevano le anime dei morti. Forse, pensavo mentre guardavo il fuoco colare sui fianchi della montagna, quelli sono i morti che chiedono di essere liberati e che vogliono farsi una scampagnata fuori, stanchi di andare avanti e indietro nel sottosuolo.
Non è strano che da bambina pensassi alla morte, alle cose che potevano succedere alla tua anima una volta che il corpo lasciava il mondo fisico. Qui, a Catania, tutto ti parla della morte, dagli edifici costruiti con la pietra lavica e che danno alla città un’aria luttuosa eppure abbagliante di luce. Perché dentro tutto quel nero si nasconde il fuoco, il cuore caldo della pietra. Una città fatta di chiaroscuri, per la quale esiste il bianco o il nero, la luce o il buio.
Un territorio lunare è quello che circonda le pendici della montagna, dove si susseguono paesini etnei affacciati su sterminate pianure di lava raffreddata e antica che rendono il paesaggio aspro e che, ancora una volta, ti ricordano quanto il tuo stare su questa terra sia incerto. Sembrano sculture aliene quelle che vedi scorrere oltre il finestrino dell’automobile, il vento e il tempo hanno fermato e infine plasmato quel fuoco e allora, pensi, che anche alla furia del fuoco c’è rimedio, che esiste chi è capace di placarlo e spegnerlo.
C’è un’immagine nei miei ricordi a cui torno sempre quando ho nostalgia della mia terra. È l’alba di un giorno d’estate. Sono in macchina con i miei genitori, stiamo andando nella casa al mare. Mio padre e mia madre davanti, io dietro. Alla mia sinistra l’Etna erutta, gli zampilli di lava contro il cielo blu elettrico attaccato per un brandello alla notte. Alla mia destra il mare, placido, senza increspature, le nuvole soffici sono appese a un cielo rosa e arancione. All’orizzonte il sole sta nascendo dal mare, ha lo stesso colore della lava. Da un lato la furia, dall’altro la calma. E in mezzo io, che ancora adesso non so da che parte stare.