A un certo punto si è scoperto che alcuni uomini che facevano sesso con le bambole gonfiabili fossero molto poco cortesi nei loro riguardi. Non che alla plastica si debba riservare una certa cortesia, è chiaro, ma se nel gioco della finzione quella è una donna, nella stessa partita tu sei l’uomo che non può farle del male per ricevere piacere. Il sospetto, quando per la prima volta ho sentito di questa storia, è che se a quegli stessi uomini venisse consentito dalla legge di poter fare con il corpo delle donne quello che in quel momento desiderano, guidati dall’impulso farebbero di noi carne da macello. L’istinto alla distruzione, in certi esemplari della nostra specie, è strettamente connesso al desiderio sessuale: vuoi così tanto un corpo da annientarlo. Non solo perché così altri non possano goderne (e questo accade moltissimo nelle relazioni tossiche che finiscono quasi sempre male e quasi sempre con la morte violenta di lei per mano di lui), ma perché la distruzione di un corpo desiderato è la realizzazione massima dell’onnipotenza, una cosa che ci rimanda direttamente al piacere insopprimibile di decidere della vita e della morte di innocenti da parte di tutti i guerrafondai della storia. È un potere breve ed effimero, qualcosa di imponderabile. Quello che è stato fatto a Carol Maltese, in arte Charlotte Angie, è qualcosa di mostruoso perché il suo assassino ha fatto del suo corpo una tela bianca, senza più identità, senza più storia. Ha voluto cancellare ogni traccia di vita dalla giovane donna, non solo strappandogliela dal petto, ma spolpandone i resti. Fare a pezzi un cadavere, bruciare il viso fino a cancellarne i tratti, conservare quel che rimane dentro un frigorifero, lanciarla infine in un dirupo: fino a che punto voleva annientarla? Distruzione totale, odiare così tanto quel corpo d’amore da volerlo vedere evaporare. Voleva farne polvere, forse, eppure lei resisteva, anche da morta. Carol era una performer, aveva un bambino di sei anni, lavorava come pornostar e doveva esibirsi in un locale di lap dance del centro di Milano, ma nessuno l’ha più vista. Eppure lei ha continuato a esistere nell’etere, perché il suo assassino fingeva di essere lei, rispondeva ai messaggi, diceva non cercatemi, ho smesso con l’hard, voglio stare tranquilla. Ma questo era quello che voleva lui, forse. Non si conosce ancora il movente, ma cosa vogliamo conoscere ancora dopo anni e anni di eccidio di donne? Siamo sempre lì: da una parte la ricerca della libertà, dall’altra un colpo d’ascia che non vuole solo le ali, ti ammazza proprio e spesso ammazza anche ciò che hai di più caro, i figli. Il lavoro di Carol è uno di quei lavori per cui devi cambiare nome, per poterlo svolgere, ed è uno di quelli che non tutti i partner sono disposti ad accettare, difficilissimo anche da svolgere quando hai un bambino piccolo e sei circondata da mamme che già ti giudicano se lo svezzi con le pennette al pesto piuttosto che con il brodino vegetale, figuriamoci se fai sesso davanti agli occhi di tutti, se il tuo corpo è immagine di desiderio. Viaggiava, spesso da sola, le piaceva, lasciava il figlio con i nonni e questo, ancora, la rendeva vittima di giudizi. È lei stessa a denunciare l’assenza di empatia delle donne che la circondano, incapaci di comprendere quanto la libertà sia per lei vitale, quanto la libertà la renda una persona migliore, una madre migliore. La violenza inizia dai giudizi e dai pregiudizi e finisce con un corpo fatto a pezzi.
È però quel lavoro non apprezzato e mal giudicato a darle salvezza da morta, a darle un finale, seppur terribile. Un fan riconosce i suoi tatuaggi. Un corpo che è stato mappato da tanti occhi, amato da tanti, a distanza, e che non può essere dimenticato. È da quei tatuaggi che si ricostruisce tutto, che si dà un nome alla persona uccisa e uno al suo assassino, che continuava a vivere nella casa dove la donna giaceva in pezzi dentro buste di plastica, a usare la sua macchina, il suo telefono: a volere essere, forse, un po’ lei e diventando a tutti gli effetti un mostro.