La vita ai tempi del Covid ci ha messo davanti a una riflessione che molti e molte di noi, di qualunque età, hanno da sempre cercato di ritardare il più possibile, perché troppo vicina alla morte: pensare alla vulnerabilità dei nostri corpi, alla fragilissima umanità di cui siamo composti. Il fatto che stia accadendo più o meno a tutti, nello stesso identico momento, ci mette in una condizione completamente nuova che riguarda la percezione di noi stessi e noi stesse, e questo a partire dall’idea che abbiamo della nostra bellezza.
Ho sempre ritenuto che percepirsi belli o brutti dipendesse da una disposizione dello spirito, giacché il depresso con molta difficoltà riesce a riconoscersi piacevole, anche se tutti non fanno altro che dirgli di trovarlo bellissimo (e la malinconia, dopotutto, rende belli gli occhi e la fragilità è da sempre un potente afrodisiaco per alcuni esemplari della nostra specie). Il punto è che in questo preciso momento, immersi nelle nostre zone colorate piene di bambini che non possono andare a scuola e di riunioni su zoom, di isolamento e di mancanza quasi totale di qualsiasi tipo di distrazioni che non sia la tv o un libro, brutti lo siamo davvero. Ridiamo poco, e quasi sempre con sarcasmo. Non ci confrontiamo più con gli altri, non misuriamo la nostra bellezza paragonandola a quella altrui e quindi, in definitiva, non riusciamo a migliorarci. Entriamo negli abiti che indossavamo prima della pandemia con lo stesso stupore con cui una bimba indossa i vestiti con le paillettes della madre e dentro quegli abiti, che spesso non ci vanno più perché nel frattempo siamo ingrassati fra briciole di carboidrati sparse fra il divano e il letto e ci sentiamo ridicoli, a disagio. L’uso forzato della tuta, o di altri indumenti molto comodi e che di certo nessuno si sognerebbe di indossare a una festa o un appuntamento romantico, ha reso la vita più semplice da molti punti di vista e ci siamo abituati a tal punto che levarsele di dosso sembra quasi di rinunciare alla propria pelle, ci danno conforto, ci fanno sentire al sicuro. Marie Kondo scriveva, in tempi non sospetti e con assoluta saggezza, che “Se per voi è normale indossare una tuta, finirete automaticamente per diventare una donna a cui la tuta si addice”. Appunto: la tuta, adesso, si addice a tutti, persino a una come me che è stata più volte rimandata in educazione fisica perché non aveva mai comprato una tuta in vita sua, considerandola disdicevole e così lontana dal suo senso estetico.
Truccarsi, poi, è diventato un gesto superfluo, dietro la mascherina non abbiamo più un’identità, le nostre labbra sono scomparse e i nostri occhi sono l’unica finestra sul mondo, spesso coperti da occhiali da sole anche quando fuori piove. Ce ne sono di donne temerarie che non rinunciano al rossetto e il mercato dei rossetti no-transfer ha fatto begli affari di questi tempi, ma molte vi rinunciano, tanto chi le vede? Chi sostiene che continua a farsi bella per sé stessa e non per gli altri, è perché il bisogno di essere piacevole, amabile e sempre in ordine è più forte della stanchezza di chi ha abbassato le armi e si concede, di tanto in tanto, solo qualche passata di burro di cacao. Insomma, credo che quel bisogno abbia qualcosa di nevrotico che non necessariamente significa amore per sé stessi, altrimenti non si spiegherebbe il grandissimo numero di donne che il problema del rossetto non se lo pone nemmeno, pandemia o no, e riescono ad amarsi comunque. Certe volte mi trucco, do qualche pennellata di ombretto, tiro una linea di eyeliner e nello specchio ritrovo la mia faccia, ma nello stesso tempo mi sembra la faccia di qualcun’altra. Ho sempre lavorato a casa, quindi non uscire durante il giorno non è per me una novità, ma prima di cominciare a scrivere ho sempre messo il rossetto, il mascara, coperto le occhiaie con il correttore: volevo farmi bella per la scrittura. Era un rito, oggi completamente dimenticato come è destino per molti riti. Se la mattina mi sono truccata, non vedo l’ora che arrivi la sera per struccarmi e non con quell’attesa di un tempo in cui togliersi il trucco significava prima di tutto togliersi via la fatica della giornata, ma con l’ansia di chi vuole ritornare a impadronirsi del proprio volto il prima possibile. Il punto non è tanto chi ti vede, il problema è purtroppo molto più profondo e ha a che fare con la nostra salute mentale.
Se al telefono dico a un’amica che sono diventata grassa e bruttissima, lei per gentilezza mi risponde che non è vero, che sono sempre bellissima. Ma non ci vediamo da sei mesi, come fai a dirlo? Sono grassa, ho preso dieci chili, sono brutta perché una mattina in cui volevo fare qualcosa per me stessa ho deciso di andare da un parrucchiere che non conoscevo, uno sotto casa, a farmi fare un taglio che assomiglia a quello di certi cantanti pop degli anni ’90 e che non andava di moda nemmeno allora. La tinta è un miscuglio di colori presi dagli scaffali dell’erboristeria o del supermercato e certi giorni, quando il sole è molto forte, mi vergogno a uscire perché non c’è pietà nella luce. Sono sempre vestita di nero e molte stelle negli occhi si sono spente, anche se non posso dirmi infelice, anche se sono molto contenta di come mi vanno le cose, amo il mio lavoro, la mia famiglia e sono la persona che desideravo essere. Specchiarsi negli occhi degli altri è un esercizio che per forza di cose non possiamo più fare e l’unico nostro referente rimane perciò lo specchio: noi e lui, da soli. Guardarsi allo specchio è come fare una foto senza filtri, come vedere pubblicata una propria immagine sulla copertina di un magazine senza l’uso di Photoshop. Solo noi sappiamo come siamo davvero allo specchio, nessun altro. Quando gli amici o anche gli sconosciuti ci incontrano, ognuno di loro vede in noi qualcosa di diverso, che magari noi non abbiamo mai colto o lo abbiamo sempre guardato da un’angolazione diversa. Adesso, tutti quegli angoli, quelle sfumature, ci mancano. Non si tratta di complimenti, non è questo che personalmente cerco, ma di costruire la propria immagine anche grazie al modo in cui gli altri ci vedono. Nudi, usciti dalla doccia, un po’ flaccidi e senza trucco, siamo primitivi e la condizione di uomini e donne della pietra, per quanto possa essere romantica, è qualcosa che poco si addice a tipi come noi che hanno inventato i selfie. Anche di autoscatti, infatti, sembra che ce ne siano meno di un tempo, perché se ti senti brutta o brutto non vuoi che gli altri ti vedano come ti vedi tu e perciò rinunci, posti foto vecchie di estati fa quando eri abbronzata e magra a sorseggiare acqua di cocco da una spiaggia thailandese dove chissà quando potrai mai tornare. Nelle foto profilo ci sono vecchie versioni di noi, più giovani, ben messi, attenti al look, desiderosi di piacere, di rimediare un’avventura erotica o andare a caccia di una grande storia d’amore.
Siamo depressi. È come se questo anno di pandemia ci abbia messo in soffitta e sopra di noi si stanno posando molti strati di polvere, i colori stanno sbiadendo, siamo sempre circondati dagli stessi oggetti e vediamo lo stesso identico panorama alla finestra. Eppure, credo, c’è una luce in fondo a tutto questo: abbiamo adesso la possibilità di riconoscerci e accettarci per quello che siamo, con le barbe incolte, i capelli un po’ unti con la ricrescita, i peli sull’inguine che crescono alla velocità delle erbacce per strada. Siamo diventati noiosi ed è questa una delle cose più tristi che ci ha portato il virus, oltre alla malattia e alla morte: la nostra bellezza, che in fin dei conti non è altro che la nostra capacità di sorridere e meravigliarci.