Osservo senza essere osservata.

Indago su i dettagli, elaboro, imprimo immagini. Ho una buona memoria fotografica che mi permette di orientarmi bene nello spazio e ricordare i volti nel tempo. Non è necessario ricordare un luogo o una persona, quanto cogliere un semplice dettaglio che ha colpito l’attenzione, sia esso eclatante o anonimo. Un palazzo con una brutta tinta, o un dente accavallato su un altro, una crepa sull’asfalto o le nocche nodose delle mani.

Nella letteratura, nella musica, nelle arti visive, gli occhi hanno sempre avuto uno speciale riguardo. Credo accada perché gli occhi sono l’unica parte del nostro corpo priva di pelle, se si escludono le palpebre naturalmente. Il fascino che gli si attribuisce ha una fonte precisa, vale a dire la capacità di manifestare il nostro interiore attraverso il nostro esteriore. Sono un’appendice dell’interno, e si trovano incastrati nel volto quasi per caso, come se la pelle si fosse erroneamente strappata e avesse partorito quei due lumini. Sono composti d’acqua e sostanza intangibile. Oltrei ai peli e ai capelli, è l’unica parte colorata. Spesso i colori possono essere bellissimi, come il giallo degli occhi di Adriano, o il viola di Liz Taylor, o l’occhio azzurro e l’occhio castano di David Bowie. Io ho gli occhi castani. Colpiti dal sole diventano nocciola, tendenti al verde bosco. Credo sia il gene azzurro di mia madre che tenta di farsi largo fra i prepotenti geni marroni di mio padre. Mia madre ha il colore degli occhi fra i più belli che abbia mai visto, grigi affogati di fumo, azzurri quando è estate. Verdi quando si arrabbia. E’ il colore della terra lunare.

Non ho mai prestato particolare attenzione ai miei occhi, non li ho mai osservati tanto quanto osservo le mie mani o i miei avambracci. Allo specchio tendo a sfuggire al mio sguardo, come se osservandoli mi sia permesso riconoscere una parte di me che tendo ad ignorare. Una paura, dentro, come se guardassi dritta in faccia la Medusa che mi trasforma in pietra. Il mio umore decide se è il caso di guardarmi negli occhi. Quando il mio umore è buono guardarmi negli occhi con i miei occhi non è una faccenda difficile, anzi non è raro che riesca persino a sorridermi occhi negli occhi che sono i miei occhi. Se l’umore è cattivo vedo una fossa, dentro, come un bassorilievo che mi porta a scavare laddove l’angoscia, la paura, il dolore non mi permettono di andare. Mi fermo. Guardo un punto sopra la fronte, ignoro i miei occhi.

Se in passato sostenevo la verità comunemente accettata, cioè che le persone si riconoscono dagli occhi, nell’attuale realtà dei fatti tale convinzione risulta essere sempre meno credibile. E’ piuttosto possibile riconoscere un sentimento o la mancanza di un sentimento dagli occhi. Innamorati, i nostri occhi luccicano. Fontanelle d’acqua appena caduta. Non innamorati, annoiati, depressi, stanchi, i nostri occhi parlano di fango. E, non esistendo una linea che divide il bene dal male, non esistono occhi buoni e occhi cattivi. Ci sono occhi che mentono, e occhi trasparenti che quasi annoiano per la loro totale sincerità.

Ci sono occhi brutti, come quelli eccessivamente tondi. Ma qui si tratta di gusti. Ci sono occhi marziani, come quelli di certi popoli asiatici. E occhi pieni di sangue, come quelli di certi uomini neri.

Ci sono occhi, poi, che per tutta una vita non si dimenticano.

Io i miei occhi li conservo per chi ha la capacità di guardarmi. Anche ad occhi chiusi.

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