Tutta colpa di un’orchidea.
L’avevo recisa a mani nude e una lacrima bianca, appiccicosa, dallo stelo era caduta sul dito.
Veleno, ho pensato. Veleno di orchidea, veleno che uccide, che la pelle assorbe e che a poco a poco invade tutto l’organismo e blocca il cuore, blocca il respiro, contamina e disidrata gli organi.
Era la fine dell’estate, un pomeriggio assolato. Mi sono sdraiata sul letto, in penombra, e ho aspettato la morte. Il cuore era un tamburo pesante, la testa girava, la gola si era chiusa mentre il sudore scendeva dalla fronte, mi gelava le mani. Non riuscivo a muovermi, eppure dovevo fare qualcosa, non potevo aspettare che la morte mi cogliesse impreparata.
“Orchidea velenosa” ho digitato su Google.
Per i gatti, sicuramente. Per i bambini, forse. Nessuno però parlava di me, di quello che al mio corpo poteva capitare se finiva a contatto con la linfa di orchidea. Chi poteva saperlo, quindi, se sarei morta? Nessuno. Solo io sapevo quanto stavo male, solo io potevo sentire l’assenza dell’anima che negli ultimi minuti sembrava avermi abbandonato. Evaporata.
Sono rimasta ferma sul letto, braccia e gambe distanti dal corpo, ho chiuso gli occhi e mi sono addormentata per non sentire la morte stritolarmi.
Da quel giorno, l’idea che il mio corpo sia un contenitore corruttibile e destinato alla morte è diventata sempre più un’ossessione, aggravata dal timore che i farmaci non possano aiutare. Ho il terrore di essere allergica a una medicina a mia insaputa, le volte che sono stata costretta a prendere un antibiotico ho rifatto lo stesso percorso: letto, “allergia a un antibiotico sintomi” su Google, di nuovo letto, attesa della morte, sonno. Una volta un medico mi ha detto “Lo prenda lo stesso e sia cauta. Tenga l’antistaminico a portata di mano”. E se sono allergica anche all’antistaminico? Ma questo non l’ho chiesto, perché non vorrei mai inimicarmi un medico.
Nelle città dell’antica Grecia, un individuo poco gradito alla comunità perché ritenuto portatore di sfortuna e disastri veniva espulso e chiamato pharmakos, il maledetto. Solo più tardi il termine servì a indicare un avvelenatore, un mago o stregone e da qui l’evoluzione in unguento, droga, farmaco. Le medicine non sono un veleno, a meno che non si sia affetti da ipocondria. Quando questa terribile malattia ti colpisce, qualsiasi cosa può essere potenzialmente fatale e le cure sono praticamente introvabili, perché l’ipocondriaco non solo non crede nella bontà della cura, ma la teme. Come Beraldo, fratello dell’ipocrondriaco Argante de Il malato immaginario di Molière,che sostiene che la medicina sia una delle più grandi follie dell’umanità. A pensarla allo stesso modo è il medico di base di un mio amico, Marco, che poco tempo fa è andato a farsi prescrivere un farmaco. Nel corso della visita, il dottore ha confidato a Marco di soffrire del suo stesso problema, ma che quel farmaco non lo prende e che, anzi, lui non prende proprio nessuna medicina. “Non mi vorrà dire che lei è ipocondriaco” ha detto il mio amico. Il medico ha abbassato gli occhi e in un sussurro ha detto “Non mi sono neanche fatto visitare”.
La regione dell’ipocondrio è situata nella zona intercostale dove a volte può capitare di avvertire delle fitte, che le persone non malate di ipocondria prendono per quel che sono, mentre gli ipocondriaci si convincono che si tratti del principio di un attacco cardiaco o di tumore ai polmoni (e il paradosso esilarante è che spesso l’ipocondriaco fuma, e pure parecchio). L’infarto è avvertito da almeno il 90% degli ipocondriaci, le cui ansie sfociano spesso in crisi di panico che provocano sintomi simili a quelli dell’attacco cardiaco. Ma perché l’ipocondriaco ha tanta paura di morire? Anzi: di ammalarsi gravemente e di contrarre una di quelle malattie rare che nemmeno i medici più esperti sono in grado di riconoscere, e infine morirne? Non sarà, forse, un forte attaccamento alla vita? Secondo Luigi D’Elia, psicologo e psicoterapeuta, «L’ipocondriaco lascia ai segni indistinti del proprio corpo, sempre mal interpretati e ai timori di travolgimento patologico, il discorso indicibile sulle proprie emozioni. Se potesse narrare qualcosa forse racconterebbe storie che sono criptate e dolorose. Un compromesso è dunque attivarsi e preoccuparsi per un corpo che non è mai totalmente controllabile. Il problema vero dell’ipocondriaco è l’ansia del controllo più che la paura della malattia. Lui sa bene di non poter avere sotto controllo tutto. È una vera e propria disperazione che in genere coincide con momenti di stress della propria vita e di abbassamento delle difese. È una condizione penosissima, intere nottate invase da pensieri di morte e dissoluzione. Il dubbio ossessivo non è un dubbio conoscitivo che si risolve, e un dubbio che rimane tale è un dubbio distruttivo.»
Chi soffre di ipocondria non ha dunque fiducia nella medicina, i dottori non vengono creduti o si sospetta che tacciano verità dolorose sullo stato della salute del malato immaginario. Non tutti gli ipocondriaci ricorrono a esami medici a scadenze regolari, ma chi lo fa e legge avidamente i risultati si convince che le analisi non siano state fatte secondo le procedure adeguate e quindi siano errate o che sia in corso una malattia silente che nemmeno il sangue è in grado di identificare. Mio padre, uomo vitale ed energico che oltre agli occhi castani mi ha passato l’ipocondria, è sempre triste quando torna a casa con i risultati degli esami: anche stavolta non mi hanno trovato niente, dice sconsolato. Perché l’ipocondria è una lunga attesa, una perenne premonizione che qualcosa di terribile stia per accadere e se non accade oggi sicuramente accadrà domani. Sulla pagina Facebook “Diario di un ipocondriaco” c’è l’immagine di una lapide con scritto “Adesso ci credete che sto male?”. Gli utenti scherzano sulle proprie fissazioni, cercano di placare l’ansia come meglio possono: “Ma allora anche tu hai paura che qualcuno abbia contaminato la bottiglia d’acqua che compri al supermercato e prima di berla la capovolgi per vedere se sono stati fatti dei buchi sul tappo?”. È consolante sapere di non essere soli, perché se è vero che l’ipocondriaco è convinto di avere malattie rarissime, la consapevolezza che l’ipocondria sia così diffusa può essere confortante. L’ipocondriaco però si sente solo, più persone lo circondano d’affetto promettendogli che non morirà nelle prossime ore e che nessuna malattia corromperà il suo corpo, più ritiene che tutte le sue fissazioni abbiano fondamento. Ci si sente soli a un pranzo, dopo aver mangiato qualche cucchiaiata di purè di fave e ci si convince di essere affetti da favismo e ci si chiude in bagno, aspettando la fine; ci si sente soli a casa, dopo aver spruzzato menta piperita nelle stanze per rendere gradevole l’ambiente e poco dopo la gola brucia, le mucose si seccano, e si teme che i polmoni siano stati gravemente inquinati. Ma un ipocondriaco può guarire?
«Difficile guarire da uno stile di vita, da una visione di sé e del mondo. Se di guarigione si può parlare, ciò accade perché un modo più funzionale eclissa un modo meno funzionale, ma non è che scompare, si mette sullo sfondo e non nuoce più. Si rimane ipocondriaci di fondo ma il pensiero diventa critico, si rinuncia al controllo ossessivo e tutto si relativizza, sempre a patto che lo stress non ritorni e chieda il suo conto» , dice Luigi D’Elia.
Ho mal di testa, apro la confezione di analgesici, sul bugiardino c’è scritto che l’assunzione può provocare, fra le altre cose, angioedema o grave shock. Che faccio, mi tengo il mal di testa o vado verso una morte probabile? Mi tengo il mal di testa, mi metto a letto, chiudo gli occhi. Dormo.